È disponibile on demand, su piattaforma CG
Digital (www.cgentertainment.it), I
love... Marco Ferreri, ideato, diretto e realizzato da Pierfrancesco
Campanella.
Una indagine postuma, tra reale e surreale,
sui mutamenti sociali degli ultimi anni, attraverso l’occhio di un artista
fuori dal coro. Ci si potrebbe chiedere se la cultura sia davvero finita e con
essa lo spirito critico. La risposta, nonostante tutto, è negativa. Certe
“esigenze” non moriranno mai, almeno finchè ci saranno cervelli pensanti e
libertà di esporre le proprie idee. E il cinema può ancora essere un ottimo
veicolo di divulgazione del bello, dell’arte e delle emozioni più profonde e
sensibili dell’animo umano.
Prodotto e distribuito dalla Cinedea srl, I
love… Marco Ferreri si avvale, oltre che della consulenza artistica di Laura Camia e della fotografia curata
da Lorenzo Vecchio, , dei prestigiosi
interventi degli attori Michele Placido
e Piera Degli Esposti, dello
scrittore e regista Emanuele Pecoraro,
dell’operatore culturale Franco Mariotti,
del critico Orio Caldiron, del
docente universitario Fabio Melelli,
del pittore Mario D’Imperio.
Per la parte fiction sono impegnati Fabrizio Rampelli (che impersona il
detective), Lorenzo De Luca
(peraltro coautore dello script insieme allo stesso Campanella), e, inoltre, Maria Rita Hottò, Marco Werba, Andrea Falcioni,
Matteo Campanella, Chiara Campanella, con la voce narrante
del bravissimo Ermanno Ribaudo.
Ecco
le parole del regista:
“Perché un documentario su
Marco Ferreri oggi? Che senso ha in un XXI secolo fatto di mondi virtuali,
dominati da Internet, di film che non esistono, realizzati con la graphic
computer, e di apocalissi in diretta come l’11 settembre, la recessione mondiale
o il problema dell’immigrazione? Forse per ricordarci un’epoca vicina nel tempo
ma antidiluviana nella memoria, in cui esisteva un cinema italiano corrosivo e
“contro”. E basterebbe questo a giustificare un documentario che, lungi dalla
presunzione di spiegare Ferreri agli addetti ai lavori, mira a farlo
(ri)scoprire al pubblico più in generale. Diversamente da Fellini, Ferreri non
è mai diventato un aggettivo: avete spesso udito il termine “felliniano”; ma
quante volte avete sentito dire “ferreriano”? Mai! Perché a Ferreri mancò
sempre (e non per caso) quella capacità di farsi universale perdendo un po’ di
sé. Si fece internazionale, questo sì, ma la sua vena caustica era troppo
personale per poter diventare un aggettivo capace di etichettare una visione cinematografica
permanente. Lui stesso si evolveva e,
talvolta, si contraddiceva, dunque il suo stile non poteva essere fissato per
sempre in un aggettivo. E non che all’interno
della sua tutto sommato abbondante (per un autore così) filmografia, siano
mancati i successi commerciali: per dirne uno, “La grande abbuffata” fu
campione d’incasso anche fuori dai confini nazionali. Un lungometraggio per le
sale non può ridursi all’onanismo mentale del singolo autore, poiché il cinema
dà lavoro a tanta gente. E Ferreri lo sapeva bene! In lui l’integrità
dell’intellettuale e la visionarietà del creativo non significavano ermetismo
sterile, di quello che fa scappare il pubblico invece di indurlo a pagare il
biglietto. “Un bravo regista non dice
mai: Ecco, questa la mia opera, è il pubblico che deve capirla!”, disse una volta Ferreri. Marco non era un autore che si lambiccava in
tormenti, ma uno che si divertiva un mondo a girare film, anche quando le
aspettative erano deluse (e quando erano invece accolte, si preoccupava
persino!). Ma invecchiando ammetteva ridacchiando, davanti ai giornalisti
sussiegosi del suo status, che voleva solo che il suo ultimo film facesse tanti
quattrini, sminuendo con ironia la sacralità del genio ma allo stesso tempo
facendoci riflettere che se un messaggio arriva alla porzione più ampia
possibile di spettatori paganti, più probabilità di attecchire avrà la
riflessione che il cineasta propone. In verità se egli è stato abbastanza
dimenticato, come un reperto rispettato ma accantonato in una teca, è dipeso
dal mutamento di un’Italia dove la degenerazione culturale è la sola costante.
Ecco dunque che il mio documentario si prefigge di mostrare allo spettatore
schegge di qualcosa che non ha mai vissuto o che è rimasto sepolto sotto
tonnellate di pubblicità, programmi-spazzatura, libri che sono per lo più
alberi morti, telefonini che ci trasformano in zombie. Il “grotesque”, il
“divertissement”, nel Ferreri migliore, non mancavano mai. Pertanto anch’io ho
cercato di concepire questo documentario non come una ricostruzione pura e semplice, ma come una
sorta di giallo visionario di quelli che forse avrebbe amato lui; un thrilling
dell’anima dove la prima vittima è proprio lui: CHI HA UCCISO MARCO FERRERI? Un
delitto metaforico, giacché un film-maker così sovversivo difficilmente avrebbe
potuto continuare ad esistere nell’Italia di oggi; in un certo senso, superata
l’umana pietas, Ferreri è
coerentemente deceduto quando il suo humus stava già estinguendosi di suo,
piuttosto che piegarsi a pellicole brutte (o finire a fare l’ospite che campa
di talk-show o l’artista in declino che si arroga il diritto di lavorare “contro”
il pubblico, per un malinteso senso dell’impegno “culturale”). In poche parole:
rivedere oggi le sue pellicole è ancora
un’esperienza disturbante,
divertente, irritante e fuori dagli schemi. Se questo documentario indurrà lo spettatore a
ritrovarsi, indignarsi, ridersi addosso e compiangersi anche davanti ad uno
solo di questi film, nel mio piccolo, ne sarò felice. Per questo il mio I LOVE…
MARCO FERRERI è anche WE LOVE MARCO FERRERI: si tratta solo di ricordarsene.”